Fattori che definiscono il funzionamento di personalità

Quali sono allora i tratti che definiscono la personalità degli individui? La risposta non è univoca. Fin dall’antichità si è cercato di individuare una classificazione sistematica dei tratti che compongono il carattere umano ed è per questo che la storia delle teorie della personalità affonda le proprie radici prima che nella storia della psicologia, nel pensiero filosofico fin dalle sue origini.
Per questo, una rassegna completa delle varie teorie della personalità occuperebbe uno spazio enorme.
Qui posso limitarmi a dire che nel mio lavoro clinico faccio riferimento a teorie e classificazioni che sono nate e si sono sviluppate nell’ambito della tradizione psicoanalitica. E anche restringendo il campo solo a questo ambito, non abbiamo di certo una concezione univoca.

Sono tanti i contributi a cui attingo per trattare ciò che rende i pazienti infelici e sofferenti. Utilizzo normalmente gli spunti derivanti dalle teorie strutturali di Freud e dagli psicologi dell’Io, le raccomandazioni della scuola inglese delle relazioni oggettuali, gli assunti dell’Interpersonalismo statunitense, le indicazioni della scuola della psicologia del Sé di Heinz Kohut e dei suoi epigoni, le teorie dell’attaccamento – da Bowlby fino alle sue evoluzioni attuali –, il modello di Otto Kernberg e quello della scuola relazionale americana; il contributo dell’infant research e dell’intersoggettivismo.

Non c’è una teoria migliore di un’altra, ognuna ci assiste nel comprendere aspetti o situazioni diverse, come fossero lenti intercambiabili atte a vedere chiaro a distanze differenti.

Le varie teorie succitate sono gli strumenti che uso per comprendere il funzionamento del singolo paziente, avendo ben presente che ciò che vale per uno non vale per l’altro. Considerando cioè che ogni persona è un caso a sé, che va compreso nella sua unicità, alla luce di una specifica storia familiare e relazionale.
Il mio lavoro è anche quello di ricostruire l’irripetibile comporsi di fattori e dinamiche interne ed esterne che hanno portato quella persona, proprio quella, a essere ciò che è; capire come quei fattori l’hanno indotta a manifestare certi sentimenti, pensieri, comportamenti e ad avere determinate paure, fantasie, desideri, percezioni di sé e degli altri.

Ma in definitiva quali sono le variabili che contribuiscono a creare un certo tipo di funzionamento di personalità piuttosto che un altro ? Eccone un elenco:

Esame di realtà: distinguere tra reale e fantasia 〉

 

Controllo degli impulsi

È la capacità di tollerare le frustrazioni senza che la rabbia sfoci in comportamenti aggressivi o distruttivi. Più in generale è la capacità di rimandare la soddisfazione di bisogni e/o desideri, e di poterli realizzare anche in forme meno primitive della semplice scarica comportamentale. Per esempio la capacità di spiegare all’altro i motivi della propria rabbia invece di aggredirlo fisicamente o di sedurre invece di “saltare addosso” al partner. Ci sono funzionamenti di personalità (come quello borderline) in cui il controllo è scarso e altri in cui potrebbe essere eccessivo (come nei soggetti ossessivi).

 

Capacità di giudizio

È la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Consente di proiettarsi in avanti nel tempo per valutare le ripercussioni che possono avere sugli altri determinate decisioni o comportamenti.

Per esempio un genitore che lascia in una condizione di insicurezza o pericolo un figlio non mostra capacità di giudizio. Al contrario, un ragazzo che non usa toni accusatori con la fidanzata perché sa che la ferirebbe mostra capacità di giudizio. È una dimensione molto legata, sia al controllo degli impulsi sia alla capacità di decentramento e mentalizzazione.

 

Capacità di mentalizzazione o riflessiva

È la capacità di capire le condotte altrui, o le proprie, in base a stati mentali interni. Per esempio la capacità, nelle relazioni, di spiegarsi le reazioni dell’altro cogliendo le sue motivazioni, valutazioni e ragioni invece di attribuirgli etichette rigide che valgono un po’ come postulati – “lui è cattivo!“, “lei mi boicotta!”. Giudizi simili sono riferiti solo a sé e ai propri bisogni mentre non tengono minimamente conto dell’esistenza dell’altro e delle sue istanze. Forse non ce ne accorgiamo, ma gli altri non sono completamente opachi ai nostri occhi. È come se fossero trasparenti e potessimo guardarli dentro. Per esempio, riusciamo a capire quando una persona si è arrabbiata per qualcosa che abbiamo detto, siamo in grado di prevedere che se non compiamo una certa azione l’altro potrebbe offendersi. Sono tutte situazioni in cui “mentalizziamo”, cioè sentiamo la mente dell’altro, entriamo in connessione, in sintonia con lui. Spesso ci si riferisce a questa capacità parlando di “empatia” o del “mettersi nei panni dell’altro”.

La qualità delle relazioni dipende da questa capacità di mentalizzare. Si tratta di una capacità importante, che spiega non solo molte difficoltà relazionali, ma che troviamo in vari disturbi di personalità. La capacità di mentalizzazione (o riflessiva) è talmente importante e inclusiva che, negli ultimi anni, alcuni autori hanno proposto un procedura psicoterapeutica incentrata proprio sulla mentalizzazione (come Peter Fonagy e collaboratori).

 

Difese utilizzate: modi di difendersi dal dolore emotivo e personalità

 

Le difese sono le modalità che tutti usiamo per difenderci da emozioni troppo intense (paura, insicurezza, vergogna, ecc.), per preservare l’autostima, l’immagine di noi stessi, per garantirci un senso di sicurezza quando ci sentiamo minacciati.

Fin qui, sembrerebbe che le difese siano nostre amiche. Effettivamente lo sono, nella misura in cui ci proteggono, ma purtroppo, c’è anche il rovescio della medaglia.

Quando adottiamo una difesa, inevitabilmente, tutto il nostro mondo affettivo, e di riflesso le nostre relazioni e i comportamenti, ne risentono. Ciò significa che le percezioni di noi e degli altri subiscono delle distorsioni e questo potrebbe provocare effetti molto negativi sul nostro funzionamento ottimale.

Le distorsioni sono trascurabili nel caso di difese più evolute, ma risultano particolarmente debilitanti quando sono in gioco difese meno evolute.

Per esempio, l’uso massiccio di una difesa primitiva come la scissione, porta a vivere tutta l’esperienza in termini di bene o male, di buono o cattivo, all’insegna dell’onnipotenza o dell’impotenza. Questo conduce la persona a percepirsi un po’ come buona e perfetta, e subito dopo come impotente e cattiva, senza la possibilità di mettere insieme queste percezioni di sé. Anzi, quando ci si sente bene si tende all’esaltazione, e tutte le cose negative scompaiono improvvisamente. Viceversa, quando si sta male, è come se non ci fosse, e non ci sarà mai più, nessuna ragione per vivere.

Provate a pensare cosa sarebbe la vostra vita se fosse vissuta solo all’insegna di estremi opposti, senza alcuna gradazione intermedia: significherebbe essere o disperati o felicissimi. Sarebbe come fare la doccia con l’acqua o freddissima o bollente, di sicuro non un’esperienza gradevole. In questo modo la persona è soggetta a violente trasformazioni, non sa più chi è, soffre di una penosa instabilità dell’identità.

La stessa cosa, capita con gli altri: chi usa la scissione vede per esempio nel partner un po’ il bene assoluto è un po’ il male assoluto, senza possibilità di comunicazione tra questi due estremi. Tutto questo, a sua volta, rischia di dare origine a comportamenti relazionali instabili, fluttuanti tra l’idealizzazione irrealistica dell’altro, fino all’aggressione rabbiosa quando l’altro è percepito come cattivo, abbandonante o svalorizzaante.

 

Le difese sono usate, spesso inconsciamente, per proteggersi dal dolore e dall’ansia. Sono come dei sistemi di sicurezza che adottiamo per gestire le difficoltà; contromisure (più o meno rigide e più o meno distorcenti) impiegate allo scopo di evitare che le emozioni dilaghino in modo incontrollato fino a farci crollare. Come detto sopra, alcune sono difese di alto livello, sono cioè sistemi maturi per gestire le difficoltà. Altre sono difese di basso livello, estremamente rudimentali e capaci di creare dei malfunzionamenti nella nostra personalità.

 

Di seguito un elenco delle difese con la relativa definizione :

 

  • Acting Out. Agire senza riflettere o senza apparente considerazione per le conseguenze negative dell’azione.
  • Essere in grado di rivolgersi ad altri per ricevere aiuto o supporto.
  • Aggressività passiva. Esprimere aggressività verso gli altri in modo indiretto e non dichiarato.
  • Occuparsi dei bisogni degli altri al fine, in parte, di venire incontro anche ai propri.
  • Annullamento retroattivo. Attuare comportamenti finalizzati a riparare simbolicamente o a negare precedenti pensieri, sentimenti o azioni inaccettabili.
  • Prendere in considerazione soluzioni alternative realistiche e prevedere le reazioni emotive a problemi futuri, ma anche saper sperimentare l’angoscia futura attraverso la rappresentazione mentale sia delle idee sia degli affetti angoscianti.
  • In una situazione conflittuale o stressante, saper esprimere sentimenti e pensieri direttamente e in modo non manipolatorio.
  • Auto-osservazione. In una situazione conflittuale o stressante, saper riflettere sui propri sentimenti, pensieri, motivazioni e comportamenti in modo appropriato.
  • Alterazione temporanea delle funzioni integrative della coscienza, della memoria, della percezione di sé o dell’ambiente, del comportamento sensorio-motorio.
  • Fantasia autistica. Sostituire con fantasticherie la ricerca di relazioni umane, ad azioni più dirette ed efficaci o la soluzione di problemi
  • Formazione reattiva. Percepire come inaccettabili i propri comportamenti, pensieri o sentimenti, e sostituirli con equivalenti diametralmente opposti. Per esempio essere gentili e premurosi con una persona che inconsciamente odiamo.
  • Attribuire a sé o ad altri caratteristiche esageratamente positive.
  • Identificazione proiettiva. Proiettare su qualcun altro un affetto o un impulso inaccettabile. Non disconoscere ciò che si è proiettato (a differenza della proiezione semplice), ma interpretarlo erroneamente come reazione giustificata nei confronti dell’altro.
  • Orientarsi verso un pensiero eccessivamente astratto per evitare di provare sentimenti disturbanti.
  • Isolamento affettivo. Incapacità di sperimentare contemporaneamente le componenti cognitiva e affettiva di un’esperienza e quindi sottrarre alla coscienza la tonalità affettiva di ciò che e si vive.
  • Lamentarsi ma rifiutare l’aiuto. Lamentarsi ripetutamente, chiedere aiuto, ma rifiutare poi consigli e sostegno, esprimendo sentimenti nascosti di ostilità e risentimento.
  • Negazione/diniego. Non riconoscere aspetti della realtà esterna o interna che sono invece evidenti per gli altri.
  • Comportarsi come se si fosse superiori agli altri o si possedessero speciali poteri o capacità.
  • Attribuire ad altri i propri sentimenti, impulsi, pensieri inconsci e inaccettabili.
  • Inventare spiegazioni, circa il comportamento proprio o altrui, rassicuranti o funzionali a se stessi, ma non corrette.
  • Evitare intenzionalmente di pensare a problemi, desideri, sentimenti o esperienze in quel momento troppo disturbanti.
  • Incapacità di ricordare o essere cognitivamente consapevoli di desideri, sentimenti, pensieri o esperienze disturbanti.
  • Vedere se stessi e gli altri come interamente buoni o cattivi, non riuscendo a integrare gli aspetti positivi e negativi in immagini coerenti.
  • Generalizzare o dirottare un sentimento per un oggetto verso un altro oggetto, solitamente meno temuto.
  • Saper canalizzare sentimenti e situazioni potenzialmente disadattivi in modo socialmente accettabile.
  • Attribuire a sé o ad altri caratteristiche esageratamente negative.
  • Umorismo (humor). Saper cogliere con ironia gli aspetti divertenti delle situazioni conflittuali e/o stressanti.

 

 

Equilibrio fra le istanze psichiche e personalità equilibrata

 

Le istanze psichiche sono le componenti costitutive della personalità. Esse devono essere in equilibrio affinché il funzionamento della mente sia ottimale e non si cada nella patologia.

Quando parliamo di istanze psichiche ci riferiamo in modo sottinteso a un certo modello di mente, e cioè quello dinamico-conflittuale risalente a Freud. Secondo quest’ultimo, la psiche può essere vista, in breve, come un equilibrio tra varie istanze o funzioni (che possiamo vedere come tendenze o forze diverse, presenti nella mente). Queste istanze sono: L’Es che incarna i nostri aspetti più impulsivi, cioè la nostra dimensione più animale e spontanea; il Supero-Io che incarna invece quell’istanza che ci chiede di adeguarci alle regole familiari, alle norme e richieste sociali e alle aspettative che abbiamo su noi stessi (ideale dell’Io). L’Io, che è l’istanza responsabile del nostro comportamento, in cui si prendono le decisioni, in cui risiedono i pensieri, rappresentazioni e sentimenti. Esso media le richieste dell’Es, del Super-Io e quelle derivanti dall’adattamento al mondo esterno (realtà esterna).

Queste istanze mentali devono essere, nel modello freudiano, in equilibrio tra loro. Ciò significa che nessuna di esse si deve imporre sulle altre. Se questo succede, si verificano funzionamenti patologici della personalità. Per esempio, se l’istanza del Super-Io diviene troppo rigida, tanto da impedire, a causa delle sue regole e proibizioni senza appello, una normale espressione della vita istintuale (sessuale e aggressiva), può determinare funzionamenti incentrati sul controllo come quello ossessivo-compulsivo. Se invece domina l’Es, cioè l’istintualità, allora potrebbero crearsi le condizioni per un disturbo antisociale.

 

Forze dell’Io

 

Il funzionamento della personalità dipende da quanto l’istanza egoica (Io) riesce a garantire una certa autonomia del soggetto: un Io funzionante in modo ottimale consente alla persona di avere cura di sé, di svolgere e mantenere un lavoro, di avere relazioni significative con amici e partner, di avere una certa autonomia. Nella valutazione del funzionamento di personalità dobbiamo quindi considerare il grado di consistenza l’Io.

 

Relazioni interne: le relazioni passate interiorizzate condizionano la personalità

 

Il funzionamento della personalità dipende da quali sono le relazioni interne che orientano il sentire e il comportamento del soggetto. Cosa sono e da dove derivano queste relazioni interne?

Le modalità relazionali che abbiamo vissuto fin dalla nostra infanzia si imprimono in noi e diventano dei modelli per le relazioni successive. Questo significa che alcuni schemi relazionali del passato, essendo stati introiettati, ci influenzano nelle relazioni attuali a nostra insaputa. In altre parole, tendiamo a rivivere e ri-attuare modalità relazionali di un tempo, anche se le relazioni che viviamo ora non hanno nulla a che fare con quelle. Questo naturalmente ha delle conseguenze sul nostro modo di fare esperienza e sul nostro comportamento.

Facciamo un esempio: consideriamo un soggetto che abbia avuto un’esperienza precoce con una madre che non vedeva i suoi bisogni, e che lo trascurava nella sua necessità, di essere visto e confermato. Ipotizziamo che tutto questo lo facesse sentire solo e abbandonato da un lato, e rabbioso dall’altro. Consideriamo che questa madre si mostrasse presente solo se il figlio si sintonizzava con le sue necessità, e che quest’ultimo abbia ceduto al ricatto divenendo compiacente.

Date queste condizioni di relazione infantile con la madre, c’è la possibilità che quel soggetto riattivi gli stessi schemi nelle sue relazioni adulte con un partner o con i figli.

Quando queste distorsioni provenienti dal passato si ri-attivano, non ne siamo consapevoli: in questi casi, ci pare davvero che l’altro sia persecutorio, invadente, controllante, abbandonante, svalutante, ecc., invece stiamo rimettendo in scena copioni passati sepolti in noi.

Se non vediamo tutto questo e non facciamo qualcosa per evitare di essere schiavi della nostra storia, rischiamo di continuare a vivere all’infinito le nostre vicende passate, la stessa sofferenza e gli stessi conflitti. La psicoterapia ha anche l’obiettivo di venire a capo di tutto ciò, impedendo agli schemi relazionali del passato di continuare a contaminare il presente.

 

Il Sé. L’immagine di noi stessi può influenzare il buon funzionamento della personalità

 

Il Sé racchiude l’insieme di rappresentazioni, sentimenti ed emozioni che si riferiscono a se stessi. Ha a che fare con quel variegato universo che comprende il modo in cui ci consideriamo e cosa proviamo per noi stessi. L’immagine che abbiamo di noi, l’ autostima, quanto ci sentiamo sicuri nelle varie situazioni, quanto pensiamo di valere, quanto il sentimento che abbiamo di noi è in grado di rimanere stabile nonostante le critiche e i fallimenti, quanto ci sentiamo giudicati e quanto abbiamo bisogno dell’ammirazione degli altri per sentirci persone degne di esistere.

Le dinamiche del Sé, dette narcisistiche , sono state messe al centro della riflessione sul funzionamento della personalità, da uno degli autori più importanti del pensiero psicoanalitico, Heinz Kohut. Grazie al suo lavoro, il Sé è diventato sinonimo di personalità, tanto da costituire uno dei filoni più importanti entro la tradizione e il dibattito psicoanalitico. I sostenitori di questo punto di vista hanno fondato un “movimento” , chiamato Psicologia del Sé.

La valutazione del funzionamento del Sé (o narcisistico) ci dà importanti informazioni sul funzionamento della personalità dei nostri pazienti. Gli aspetti da considerare sono:

  • La persistenza o coesione del Sé. È la capacità di avere un’idea abbastanza precisa di noi stessi, in merito a chi siamo, cosa vogliamo, quali sono i nostri valori, le capacità e i limiti che ci contraddistinguono.

Le persone con difficoltà a livello del Sé non si sanno descrivere. Se gli si chiede di farlo, spesso lo fanno raccontando del loro lavoro. Emerge una figura sfocata e piatta, senza vitalità. Oppure al contrario questi soggetti si idealizzano, si descrivono irrealisticamente come semi-Dei, creature perfette, amate, vincenti, che non falliscono mai.

  • L’autostima. È banalmente quanto ci apprezziamo, quanto siamo contenti di vestire i nostri stessi panni, di essere ciò che siamo. In una condizione normale non è né troppa né troppo poca. Ciò significa volerci bene nel nostro essere soggetti realistici, con determinati talenti, ma anche con dei limiti. L’autostima, se insufficiente, determina sentimenti di delusione riguardo a ciò che siamo, a ciò che facciamo, a come ci considerano gli altri. Se invece è eccessiva, si rischia di cadere nell’idolatria di sé e nell’onnipotenza.
  • La continuità o coerenza del Sé. Altro segno di buon funzionamento della personalità a livello narcisistico (dinamica del Sé) e dato da quanto manteniamo l’identità nel tempo. In linea di massima, dovremmo percepirci in modo più o meno costante con il passare dei giorni e passando da un’esperienza a un’altra. Se una persona manifesta invece una percezione di sé che muta di giorno in giorno e di momento in momento, passando da attimi di vitalità ad altri di impotenza, scarsa fiducia in sé e depressione, è un segno di scarsa continuità del Sé. Quando ciò succede anche gli altri ci percepiscono come lunatici e instabili. La coerenza del Sé indica anche un funzionamento in cui non ci sia una rappresentazione scissa di sé e degli altri. Come se non si potesse che essere o buoni o cattivi, senza gradazioni intermedie.
  • Confini del Sé. Una personalità equilibrata mostra nell’area del Sé la presenza di confini chiari ma permeabili e non rigidi. Questo significa essere in grado di percepire la consistenza delle proprie idee e visioni del mondo, ma essere allo stesso tempo capaci di accettare che gli altri possano vedere le cose in modo differente.

Spesso chi ha un Sé confuso e poco coeso manifesta anche disturbi relativi ai suoi confini: l’inconsistenza del Sé viene rappresentata allora sul corpo, in forme che richiamano la necessità di definire ed evidenziare la barriera dentro-fuori. Il confine corrisponde spesso con l’epidermide e la necessità di rinforzarlo si esprime attraverso mutilazioni del corpo, tatuaggi, piercing, interventi plastici, ecc.

 

 

Le nostre relazioni sono lo specchio del funzionamento della personalità

 

Un buon funzionamento sul piano relazionale, quindi la capacità di intrattenere rapporti duraturi e soddisfacenti con altre persone, animati da collaborazione, reciprocità, ascolto ed empatia, sono normalmente testimonianza di un buon livello di funzionamento della personalità.

Al contrario disturbi caratteriali si riflettono sempre sul piano relazionale, creando distorsioni che sono, tra l’altro, specifiche per ogni tipo di disturbo. Si verificano, in questi casi, conflitti interpersonali continui, difficoltà di reciprocità e ascolto, vissuti di delusione, pensieri rivendicativi riferiti all’altro e reazioni rabbiose o depressive. Centrale risulta in questi casi la percezione che si ha dell’altro. Essa può essere:

 

  • Scissa, cioè l’altra persona con cui si è in relazione diventa, all’improvviso, completamente cattiva; ci si dimentica in quel momento che l’altro in questione è magari il nostro partner, un genitore, un figlio, una persona con cui c’è anche qualcosa di positivo. In quel frangente non conta cosa rappresenta per noi, egli diventa un mostro, un invasore, un boicottatore, un’entità che ci vuole fare del male e da cui dobbiamo difenderci.
  • Privo di autonomia. Come se l’altro fosse una nostra protuberanza, che aderisce e gratifica, senza discutere, i nostri desideri e bisogni. In questi casi si parla di una rappresentazione narcisistica dell’altro. Un modello del tipo: “tu esisti per gratificarmi!”, che naturalmente non contempla l’esistenza dell’altro, come soggetto a sé stante. La conseguenza è che vengono meno l’abitudine e la capacità di ascoltare e sintonizzarsi con il punto di vista differente di chi si ha di fronte.
  • Quanto è costante la rappresentazione dell’altro? Una personalità matura e ben funzionante è caratterizzata dalla fiducia che l’altro (un partner, un amico/a, un affetto) continui ad amarci anche quando si allontana da noi. Invece, a volte, può esserci una difficoltà a sentire che l’altro c’è, quando non è lì con noi in modo tangibile. Questa scarsa “pregnanza“ dell’altro è alla base, per esempio, di molti comportamenti di attaccamento morboso, o di gelosia. Ciò può spiegare anche la preoccupazione e l’ansia che certi soggetti provano quando il partner risulta rabbuiato: questo perché scatta la sensazione che ce l’abbia con loro. Oppure, il fatto di chiamare il partner al telefono diverse volte al giorno per dominare l’ansia o i sentimenti di gelosia. Questi sono tutti esempi di difficoltà nel considerare permanente l’altro, e testimoniano la tendenza a vivere l’esperienza della perdita definitiva, con le emozioni e il dolore correlati, a ogni allontanamento, anche temporaneo.

 

 

Stili di attaccamento

 

La teoria dell’attaccamento nasce grazie a John Bowlby, in un’opera in tre volumi, divenuta un classico della psicologia e della psicoanalisi, intitolata “Attaccamento e perdita” (1969, 1973, 1980). In essa si afferma che la personalità umana si organizza intorno a un bisogno fondamentale, quello cioè di sentirsi al sicuro. Per raggiungere questo obiettivo di sicurezza, la natura ha elaborato un istinto innato che ricerca la vicinanza protettiva di una figura di riferimento, ogni volta che intervengono condizioni di pericolo, paura, sofferenza, ecc.

Possiamo facilmente constatare tutto questo: quando ci sentiamo impauriti, feriti o esposti ad attacchi dal mondo esterno cerchiamo la protezione e la vicinanza di una persona, che riteniamo in grado di consolarci e rassicurarci, un genitore, un partener, un familiare, un amico.

 

Ma la teoria dell’attaccamento dice anche un’altra cosa fondamentale: questa tendenza innata a cercare la rassicurazione dell’altro in caso di “pericolo”, è soggetta alla storia e alle esperienze di vita del soggetto e può anche trasformarsi, alterarsi e “distorcersi” in concomitanza con esperienze relazionali inadeguate, durante l’infanzia. Questo significa che ognuno di noi elabora, a seconda della storia delle proprie relazioni, soprattutto quelle precoci con la madre, un particolare stile di attaccamento. Esso è specifico per ogni persona, ed è la modalità relazionale che usiamo abitualmente per ritrovare uno stato di sicurezza e “regolazione interna” in condizioni in cui ci sentiamo minacciati da qualcosa, preoccupati, spaventati, tristi, quando siamo a disagio o semplicemente, stiamo male.

 

Possiamo parlare di uno stile di attaccamento “normale” quando la persona rimane autonoma, capace di fare le proprie esperienze e di affrontare le difficoltà. Nell’attaccamento “normale”, in caso di paura, insicurezza e pericolo che vanno oltre le proprie capacità di regolazione, il soggetto riesce a rivolgersi a chi gli vuole bene, cercando un contatto empatico, caratterizzato da “calore” e sintonia, che è in grado di rassicurarlo e rinfrancarlo. Questi momenti sono come dei rifornimenti di sicurezza che gli consentono a di procedere, recuperando una certa serenità. Lo stile di attaccamento appena descritto viene definito “attaccamento sicuro”.

Purtroppo però ci sono persone che, a causa di relazioni con genitori “non sufficientemente buoni”, hanno dovuto correggere la naturale propensione alla ricerca della protezione e vicinanza dell’altro. In certi casi, per esempio, osserviamo persone che non riescono a rivolgersi gli altri in caso di bisogno; piuttosto, tendono a proteggersi da soli. Questi soggetti sono isolati affettivamente dagli altri, e impostano la propria vita relazionale all’insegna del distanziamento e del non riuscire a lasciarsi andare. Questo stile di attaccamento viene chiamato “attaccamento insicuro evitante-distanziante”.

In altri casi, invece, la figura di riferimento non è ricercata solo in caso di pericolo o paura, ma è come se la persona avesse bisogno della vicinanza costante dell’altro, anche per le normali difficoltà della vita, per lo svolgimento di piccole incombenze. Non riesce a sentirsi tranquillo se non sa dov’è l’altro, cosa sta facendo, quando ritornerà. Le separazioni e la solitudine per questi soggetti sono fonte di insicurezza e angoscia, a volte ingestibili. È come se non avessero la capacità di autoregolare le proprie emozioni negative. Solo l’altro può stabilizzarle. È come ricercare costantemente qualcuno a cui “dare la mano”, per sentirsi al sicuro e tranquilli. Allo stesso tempo però, quando l’altro è presente, possono provare rabbia nei suoi confronti per le distanze messe precedentemente. Questo stile di attaccamento viene definito “attaccamento insicuro ansioso-resistente”.

 

Stili di attaccamento nell’infanzia: la Strange Situation

 

Per indagare i vari tipi di attaccamento nei bambini, Mary Ainwarth ha ideato un esperimento denominato Strange Situation. Consiste nell’osservare il comportamento di un bambino posto in una stanza con la madre e le sue reazioni, nel momento in cui quest’ultima esce lasciandolo con un estraneo; e successivamente, quando viene lasciato completamente solo per qualche minuto. L’ipotesi è che l’allontanamento della madre crei un momento di insicurezza e angoscia nel bambino. La parte più interessante della situazione è rappresentata da quello che il bambino fa quando la madre rientra dopo essere rimasto da solo o con l’estraneo. Si possono osservare quattro modi di reagire che corrispondono ai quattro stili di attaccamento possibili: l’attaccamento sicuro-autonomo, quello insicuro ansioso-resistente, insicuro evitante-distanziante, quello disorganizzato.

 

Attaccamento sicuro

 

Questo genere di attaccamento è caratterizzato dalla fiducia. Il bambino è rassicurato dalla presenza della madre. Quado gioca, si dimentica di lei e si concentra sulle proprie attività. Se viene lasciato solo, smette di giocare e dà segni di angoscia. Quando la incontra di nuovo dopo una breve separazione sa che lei è disponibile e capace di consolarlo. La madre risponde in modo efficace ai bisogni del bambino e molto velocemente egli si sente rassicurato e torna alle sue occupazioni. La madre è empatica, coglie il disagio del figlio e interviene efficacemente per alleviarlo. È la madre sufficientemente buona di Winnicott

 

Attaccamento insicuro evitante-distanziante

 

Il bambino con attaccamento evitante-distanziante reagisce alle separazioni con apparente calma, continuando a giocare. Quando si riunisce con la madre non si rivolge a lei in cerca di rassicurazione, ma continua a giocare. Se la madre si avvicina osserviamo manovre distanzianti, per esempio evita di guardarla e volge lo sguardo altrove. Sappiamo da misure fisiologiche che l’apparente calma che manifesta in sua assenza nasconde in realtà un importante stato di stress. Quando ha bisogno di calmarsi, questo bambino fa affidamento su di sé (autoregolazione). La madre di questo genere di bambino è a sua volta distanziante, non responsiva nei confronti delle sue comunicazioni affettive e delle sue richieste di conforto. Alle sue richieste di attenzione risponde spazientendosi o dicendo per esempio: “non piagnucolare, ormai sei grande!”. Questi bambini adottano strategie di evitamento per difendersi (adattarsi) da madri rifiutanti. Finiscono per aspettarsi che la madre non sia responsiva o che risponda negativamente al loro disagio.

 

Attaccamento insicuro ambivalente-resistente

 

Il bambino ambivalente-resistente, anche se sta giocando e la madre è presente, la tiene d’occhio, perché teme che si allontani. Reagisce con estrema angoscia quando è lasciato da solo.

Quando si ricongiunge con lei, si aggrappa e non riesce a consolarsi, e alternativamente la picchia. Sembrano esserci sentimenti ambivalenti, paura di essere abbandonato e rabbia.

La madre di questi bambini, tende a dare precedenza alle sue emozioni piuttosto che a quelle del figlio. Gli impone le proprie priorità, interviene nei suoi giochi per portare a termine compiti che spettano a lui, interrompe il gioco per abbracciarlo. È intrusiva, costantemente assorbita nelle sue preoccupazioni, sentite come urgenti e prioritarie. Questi bambini sono ipervigili, in ansia per la non disponibilità della madre e impauriti dal rischio di essere abbandonati

 

Attaccamento Disorganizzato/disorientato

 

Questo tipo di attaccamento è associato spesso ad abuso e a trascuratezza. In età adulta si lega a gravi disturbi mentali, tra cui il disturbo borderline, quello dissociativo e quello post traumatico.

Questi bambini hanno subito un accudimento incoerente, disorganizzato. Non sanno cosa aspettarsi dalla madre. In certi momenti è intrusiva, in altri abbandonante, in altri ancora, impulsiva. Il bambino reagisce con uno stile di attaccamento dove non c’è protezione dalla disregolazione della madre perché quest’ultima è imprevedibile. Non può né aggrapparsi né isolarsi, e allora sviluppa angoscia durante le separazioni e durante i ricongiungimenti, invece di avvinarsi alla madre, se ne va. Sembra confuso, intontito, in stato dissociativo.

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