Quando viviamo una condizione di disagio che deriva dal lavoro, da una relazione, da una condizione di vita, ci accorgiamo che può essere molto difficile cambiare quelle cose che ci fanno stare male. Dare seguito a quella voce interna che ci dice che è ora di lasciare quell’occupazione, di interrompere quel rapporto non più soddisfacente o di sottrarci a una condizione che sappiamo essere fonte di sofferenza, può risultare estremamente arduo, nonostante il nostro desiderio e quanto tra noi e noi riteniamo auspicabile.
La resistenza al cambiamento è un fenomeno per certi versi normale, inscritto nel nostro bagaglio biologico. Fin dagli albori della nostra specie infatti, in un mondo di pericoli e incertezze, la sopravvivenza era legata al riuscire a ritagliarsi condizioni di sicurezza. Gli esseri umani, ma anche gli animali, hanno imparato a proprie spese, nel corso della selezione naturale che assicurarsi condizioni di sicurezza significava individuare modalità di sopravvivenza e comportamenti che fossero ben collaudati per rispondere alle esigenze ambientali. Per esempio, gli uomini hanno cominciato a vivere in gruppo adottando modalità di vita sociali perché la collaborazione con un collettivo, per assicurarsi il cibo, per difendersi, ripararsi, ecc.., era maggiormente funzionale alla sopravvivenza rispetto allo stare da soli. La stessa cosa possiamo affermarla per molti altri comportamenti e abitudini che adottiamo come specie e che riguardano l’allevamento dei figli, la famiglia, la coppia, la dimensione sociale. In tutti questi ambiti gli esseri umani, usano modalità particolari, perché aumentano le probabilità di sopravvivenza della specie. Possiamo dire che ci strutturiamo intorno da una regola di fondo che potremo esplicitare come segue: “Una volta che hai individuato dei modi per affrontare i problemi della vita, se hanno funzionato, memorizza quei modi e riutilizzali sempre perché sono più sicuri! In altre parole, una delle regole più potenti a cui ci affidiamo per la sopravvivenza coincide con quel proverbio che recita: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa ciò che lascia e non sa ciò che trova.. ! ”
Tutto questo però, anche se in termini di sopravvivenza della specie risulta essere funzionale, genera problemi sul piano particolare del singolo individuo, quando le condizioni ambientali cambiano. Cosa succede in questi casi? Il rischio è quello di usare modalità vecchie in condizioni nuove e quindi manifestare comportamenti inefficaci e soluzioni paradossali. Il grado di “conservatorismo psicologico” in noi può essere tale, da indurci a irrigidirci perseverando nell’utilizzare strategie di risposta consolidate anche quando è chiaro che esse risultano disfunzionali e fallimentari. Anzi, spesso succede che quando ci accorgiamo che un certo schema comportamentale, affettivo o cognitivo non restituisce i risultati sperati, invece di modificarlo tendiamo a intensificarlo e ad usarlo ancora di più nella speranza che porti finalmente a dei risultati (un po’ quello che fanno alcuni insetti quando si trovano davanti a un vetro).
Durante la crescita il nostro cervello struttura schemi per vivere nel migliore modo possibile la condizione di vita in cui ci troviamo. I bambini quindi modellano la propria personalità, le proprie propensioni comportamentali, i loro modi di reagire o affrontare le criticità, in funzione delle pressioni che ricevono negli ambienti da essi frequentati, in primis nella famiglia con le sue caratteristiche dinamiche emotive. Per questo, se il bambino ha a che fare con un ambiente familiare anaffettivo, abbandonante o addirittura violento, per sopravvivere dovrà adottare delle strategie che compensino queste difettosità ambientali. Potrebbe ad esempio, per attivare l’interesse del genitore escludente, adottare una modalità relazionale carica di ansia tesa alla dipendenza, alla ricerca di protezione e all’accudimento. Oppure, al contrario, per sfuggire all’intrusione e al dolore che può derivare da una relazione affettiva controllante o giudicante, adottare modalità tesa all’allontanamento dagli altri e all’evitamento di ogni attaccamento affettivo. Tutto questo tende a determinare delle distorsioni che possono strutturarsi e ad essere usate in tutte le relazioni future anche adulte, anche quando ci si relazionerà a persone (partner, colleghi, amici, figli, ecc…) che non sono né abbandonanti né intrusivi né violenti. Gli effetti di tutto questo sulla vita attuale può essere l’incapacità di vivere serenamente le relazioni attuali a causa di un automatismi che riconducono tutto quello che si vive a ciò che si è vissuto precedentemente.
Naturalmente se si è vissuta una esperienza relazionale precoce sicura e serena, questo si tradurrà in un vissuto delle relazioni attuali dominato dalla fiducia, dalla sensazione di non essere in pericolo, dalla libertà di vivere le esperienze per quello che sono, potendo attingere pienamente alle proprie risorse emotive. Se al contrario l’esperienza relazionale precoce ha obbligato, come abbiamo visto, ad adottare “schemi di sopravvivenza psicologica”, questi schemi tenderanno a imprimersi nella mente come modalità relazionali implicite operanti che possiamo paragonare a delle lenti deformanti che ci faranno vedere tutte le situazioni relazionali nuove come se fossero analoghe a quelle vecchie. Queste lenti non sono solo un modo di vedere le situazioni relazionali nuove trasfigurandole con quelle infantili ma prevedono anche una serie di previsioni su cosa accadrà nella relazione di adesso, su come noi ci sentiremo e come dovremo reagire. Il risultato paradossale è che la paura, il disorientamento e l’impotenza, di un tempo verrà riattivata nell’oggi accompagnata dalle stesse reazioni di isolamento, rabbia, paura, ecc..
Come fare a interrompere questo ciclo che tende a ripetere all’infinito modalità di comportamento, di rappresentazioni e di reazioni emotive passate? Come possiamo liberarci delle influenze nefaste del passato che ci obbliga a recitare copioni ormai inattuali impedendoci di svincolarsi dalla ripetizione e di rinnovarci?
Un percorso Psicologico clinico ha la funzione di creare uno spazio di ascolto che possiamo paragonare a una specie di cantiere nell’ambito delle esperienze del soggetto. E’ attraverso l’aiuto di una prospettiva terza che è possibile portare in luce gli elementi di ripetizione presenti nella vita del soggetto. E’ insieme al terapeuta che il paziente può divenire consapevole di ciò che è implicito. Per implicito intendo una particolare versione dell’inconscio che riguarda tutto ciò che si trova in uno stato di conoscenza che è procedurale e relazionale e che non è mai stato conosciuto in modo esplicito. Attraverso l’esplorazione e la guida dello psicologo gli schemi impliciti ereditati dalla propria esperienza vitale sono conosciuti, visti, apprezzati nel loro articolarsi e manifestarsi nella vita quotidiana. Questa creazione di nessi nuovi insieme all’esperienza relazionale tra terapeuta e paziente che propone operativamente modalità capaci di sconfermare le credenze relazionali patogene del paziente stesso, sono strategie rivelatesi efficaci per attuare finalmente quel cambiamento che, come abbiamo visto, risulta spesso difficile da attuare.